di Davide Giacalone
Quando le raccontavamo noi, le avventure brasiliane di Telecom Italia, sembrava che la cosa non dovesse interessare a nessuno, con la grande stampa pronta a non prestare orecchio od a porgere la pagina al più ricco investitore pubblicitario. Ora le stesse cose emergono dall’inchiesta giudiziaria, pezzo dopo pezzo, ed a me sembra che lo scandalo più evidente è il menefreghismo di allora, l’inesistenza di validi controlli sulle società quotate in Borsa.
Prendiamo il caso di Naji Nahas. Documentammo, carte alla mano, che questo finanziere, brasiliano d’origine libanese, agiva quale uomo di fiducia di Marco Tronchetti Provera, e raccontammo che mentre il suo dante causa lo indicava come interlocutore affidabile ed accreditato l’ufficio legale di Telecom ne negava anche solo l’esistenza. Il che non era da annettersi ad un difetto di comunicazione interna, ed era rilevante in quanto Nahas era pagato con soldi della Telecom. Tutta roba scritta nel 2003. Ora sappiamo che anche il capo della sicurezza Telecom, Giuliano Tavaroli, lo considera uno spregiudicato, ma che Tronchetti e Buora vollero utilizzarlo perché “per trattare con un bandito, ci vuole un bandito”.
L’altro bandito era Daniel Dantas, capo del fondo Opportunity, il quale, se lo riterrà, potrà querelarli, ma la cosa qui interessante è un’altra: i soldi della Telecom s’indirizzavano verso quello che i dirigenti di quella società consideravano un bandito. E c’è di più: siccome, come raccontammo, il buon Nahas era pagato in contanti, per decine di milioni di dollari, il che non s’è mai visto nel mondo civile e non banditesco, un dirigente Telecom operante in Brasile, Bonera, ne dedusse che con quei soldi si pagavano delle tangenti.
Su tutto questo che, ripeto, è stato scritto anni fa, nessuna autorità di controllo mosse un dito, sebbene, all’evidenza, le ricadute sull’attendibilità del bilancio di Telecom non erano trascurabili.
S’è mossa la magistratura penale, con i suoi tempi non proprio fulminanti. S’è scoperto un giro di spioni che si sarebbero dedicati anche a me, con indagini economiche e personali. Saranno rimasti nauseati dalla monotonia, al punto che giunsero ad inventarsi parentele mafiose inesistenti, nell’intento generoso di movimentarmi l’esistenza. Sul punto ho solo da dire che ho presentato denuncia e difendo la presunzione d’innocenza. Quindi staremo a vedere.
Quel che, invece, è chiaro come la luce del sole è che i tigrotti spioni non agivano per proprio conto, ma su mandato di chi li aveva scelti: Tronchetti Provera e Buora. Il primo ha avuto modo d’intascare i soldi ed il secondo è ancora al suo posto. E’ bislacca assai l’idea che gli uomini della sicurezza e gli spioni agissero mentre gli altri restavano all’oscuro di tutto. Ma se erano informati erano e sono anche responsabili. Quanti ettolitri di veleno devono ancora scorrere prima che si giunga a prendere atto dell’evidenza?
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