Benvenuti!

In difesa di 113 anni di storia e di gloria.
In difesa di 29 scudetti.

Perché la Juventus non è stata difesa.
Non è stata difesa da John Elkann. Anzi...
Non è stata difesa da Gabetti. Anzi...
Non è stata difesa da Grande Stevens. Anzi...
Non è stata difesa da Montezemolo. Anzi...
Non è stata difesa dal presidente Gigli. Anzi...
Non è stata difesa da Cesare Zaccone. Anzi...

Per contribuire al blog, scrivete a ilmagodiios@gmail.com

Astenersi Moratti, Borrelli, Guido Rossi e simili
---------------------------------------------------------

martedì 4 dicembre 2007

Il partito della decadenza. Un establishment piccolo piccolo


E' uscito un bel libro, dedicato a Lucky Luke e ai suoi compagni di merende.


Il partito della decadenza, di Lodovico Festa


Luigi Abete e Diego Della Valle. Marco Tronchetti Provera e Paolo Mieli. Oltre, naturalmente, alla star Luca Cordero Di Montezemolo. Con, sullo sfondo, il mondo Fiat e Capitalia. In rapporto-scontro con Giovanni Bazoli. Questi i nomi e cognomi, indicati da Lodovico Festa, nel suo ultimo libro "Il partito della decadenza", dei protagonisti di quello che l'autore chiama "il piccolo establishment", che sta condizionando non poco le vicende economiche, sociali e politiche italiane.

Fondatore, con Giuliano Ferrara, de Il Foglio, Festa è editorialista di diverse testate, quali Il Giornale, Tempi, Finanza e Mercati e Il Valore. Festa è soprattutto un pensatore libero e che, in un mondo paludato, conservatore, convenzionale e timido qual è la stampa economica italiana, non teme di criticare quelli che è possibile ancora definire i poteri forti (anche se qualcuno, visto il loro declino, li chiama ormai "poteri fortini"): Fiat e dintorni, le grandi banche, i santuari della finanza. Prendendo spunto dall'ultimo libro di Lodovico, abbiamo fatto con lui una chiacchierata sugli equilibri di potere in Italia.

Sulla copertina del tuo libro, proprio sotto il titolo "Il partito della decadenza", c'è un'immagine di Montezemolo. Allora è proprio Lcdm (come lo indicano alcuni commentatori, dalle iniziali del nome e cognome), il simbolo del nostro declino?
«Si, perchè insieme ai suoi amici, subordina gli interessi fondamentali del Paese ad alcuni interessi particolari».


Quali?
«Il gruppo di cui Montezemolo fa parte, non si cura delle esigenze vere dell'Italia, diciamo, in senso lato, la modernizzazione del Paese. Così, quando nel 2005, in vista delle elezioni si accorda con Romano Prodi, lo fa come espressione di un blocco di potere che ha a cuore –non solo, ma in particolare- la Fiat».

Non mi sembra una novità assoluta. Dal dopoguerra in poi, l'economia italiana è sempre stata condizionata da élite. Che hanno spesso avuto tra le priorità la salvaguardia del gruppo torinese. Anzi, è stato talmente stretto il legame tra lo sviluppo del nostro sistema economico e quello degli Agnelli, che qualche economista un po' eretico si è posto la domanda: "L'Italia è diventata uno dei paesi più industrializzati del mondo anche grazie alla Fiat, o nonostante la Fiat?". E c'era chi sosteneva che era l'asse Torino (Fiat)-Milano (Piazzetta Filodrammatici, non ancora Piazzetta Cuccia)- Trieste (le Generali), a dettare l'agenda economica del paese.
«In verità, il vecchio establishment, pur compiendo errori, era riuscito a tenere insieme il paese. Certo, aiutato in questo dalla situazione internazionale bloccata dalla Guerra fredda. Con la caduta del muro e la globalizzazione, la situazione si è ribaltata».

Cuccia & Co avevano però una visione giacobina, da club dei migliori. In base alla quale "le azioni non si contano ma si pesano", come pare abbia sentenziato il "signore" di Mediobanca. E il peso giusto era quello degli amici dei famigerati salotti buoni. Non mi dissocio perciò da chi sostiene che l'asse TO-Mi-TS bloccava un salutare ricambio dei vertici della classe dirigente, con il risultato di rendere l'Italia un paese privo di vera concorrenza interna.
«Come ho scritto, le caratteristiche del nostro dopoguerra avevano prodotto il tipo di establishment –finanziario, editoriale, grande industriale, universitario- che conosciamo: abbastanza chiuso, tendenzialmente consociativo, conservatore negli obiettivi. Certo, in una società moderna, il valore d'un establishment consiste non solo nella sua capacità di vigilare autorevolmente sulla discussione della comunità nazionale perchè non travalichi gli interessi del paese, ma pure nella sua funzione di promuovere una vera competizione tra le idee, le posizioni e le soluzioni. In fondo, Enrico Cuccia aveva tentato un'apertura, ma è stato contrastato e il suo erede fatto fuori».


L'alta classe dirigente che per decenni si identificava con lui aveva rispetto a quella attuale ben altra grandezza. E passiamo a questo establishment piccolo piccolo.

«E' rimasto un establishment sempre più ristretto e inefficace, che non si pone la questione di garantire con la sua autorevolezza le aperture della società italiana. Anzi, usa il poco fascino che gli resta per conservare e accumulare più potere possibile, o almeno per mantenere le posizioni».


I nomi cui ti riferisci, li abbiamo già fatti all'inizio: Montezemolo, e soci. è una teoria condivisa da altri giornalisti attenti. Angela Maria Scullica, direttore di BancaFinanza, in un servizio intitolato "Diego Della Valle, il braccio armato di Montezemolo", scrive: "se si parte da Della Valle si arriva inevitabilmente alla definizione di un gruppo eterogeneo, formato da industriali, giornalisti, banchieri e politici, che oggi (ndr: era il gennaio 2005) si sta muovendo con determinazione per affermare interessi e valori e acquistare potere sulla scena economica e politica italiana, che vede in Montezemolo il suo uomo di punta. Ne fanno parte tra gli altri, Enrico Mentana, Carlo Rossella, Ezio Mauro, Marco Leonelli e Maurizio Beretta, con i quali sin dal 1994 Luca e Diego diedero vita in Germania al "Club di Berlino". Nel tempo il gruppo di amiconi si ingrandì con Luigi Abete, Paolo Panerai, il sindaco di Firenze Leonardo Domenici e altri ancora". Insomma c'è una certa sovrapposizione di nomi tra i "ragazzi di Berlino" e i tuoi piccoli establisher. Ma li consideri piccoli soltanto perchè tengono conto di interessi di parte e non di interessi nazionali?

«Questo è senz'altro il motivo principale. Come ho detto, il piccolo establishment si è posto come obiettivi il risanamento Fiat e alcune operazioni quali le fusioni bancarie avviate da Intesa e Unicredit. Tuttavia lo considero un establishment piccolo anche per il profilo dei suoi protagonisti: nonostante alcuni siano di valore, restano comunque piccoli rispetto ai registi del passato, quali Enrico Cuccia e Gianni Agnelli. Questo establishment poi, è particolarmente deleterio, e tende a impedire l'evoluzione della società. Pensiamo anche alla vicenda di due estati fa quando sembrava che si profilasse una collaborazione tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi, con la comune partecipazione a un fondo di private equity. Bene, il piccolo establishment si oppose con vigore a questa prospettiva. E il quotidiano di Mieli fu tra i più accaniti oppositori. Giovanni Sartori scrisse sul Corriere che "Non è vero che pecunia non olet. A volte il denaro puzza. E quello di Berlusconi per De Benedetti dovrebbe strapuzzare». Mentre il vicedirettore Dario Di Vico appare compiaciuto quando Arturo Parisi in un'intervista condanna il possibile accordo tra Silvio e Carlo evocando la questione morale e sostenendo: "come si può dire che l'alleanza appaia confinata al solo mondo e alla sola logica degli affari?"»


A proposito di Berlusconi, come mai non è mai entrato nell'establishment, nè nel grande nè nel piccolo?

«I motivi sono complessi. Inclusa una motivazione psicologica, quale una sorta di complesso d'inferiorità da parte del figlio di un funzionario bancario lombardo nei confronti delle grandi banche. Poi c'è l'incompatibilità con l'istinto liberista che Berlusconi a volte dimostra di avere. E infine c'è il fastidio da parte dell'establishment ad allargare il circolo del potere».


La necessità di superare la chiusura delle élite la sottolinei bene quando scrivi che occorre "sostenere quella sorta di rivoluzione borghese che si è innescata negli anni '90. Al centro di questa rivoluzione c'è la rivendicazione orgogliosa del proprio lavoro, con conseguente richiesta di ritirata da parte dello Stato. Su questo sentimento, sulle parole d'ordine che ne derivano, si sono messi insieme dal grande indistriale estraneo al piccolo establishment al bottegaio, all'operaio del Nord-est che in più d'un caso si appresta a diventare imprenditore. Temi e parole d'ordine che in qualche modo hanno ispirato il berlusconismo e sul versante sindacale la Confindustria damatiana". Ma perchè la nostra borghesia ha tardato tanto a cercare una riscossa, lasciando di fatto, con la sua debolezza "politica" il pallino nelle mani dei vari establishment?

«Il discorso parte da lontano, dall'unità d'Italia, fatta non da un movimento borghese, ma dall'aristocrazia piemontese. Insomma l'Italia è costruita dall'alto, non nasce da rivoluzioni come l'Inghilterra e la Francia. Oltretutto, con il Non expedit proclamato da Pio IX nel 1874, la borghesia si spacca tra laici e cattolici, con questi ultimi esortati dal Papa a non partecipare alla vita politica. Negli anni Venti poi, la borghesia si schiera col fascismo e nel dopoguerra sconta questo suo peccato delegando di fatto alla Chiesa e alla DC il compito di reggere lo Stato. E appunto solo dopo la fine della Guerra civile europea, durata dal '14 alla caduta del Muro, che la borghesia tenta di assumere un ruolo politico. Il che si traduce pure con l'affermazione della Lega e del berlusconismo».


Ma c'è speranza di uscire dalle logiche del piccolo establishment?

«Segnali positivi non mancano. Due protagonisti di questi ultimi anni come Sergio Marchionne e Alessandro Profumo sembrano ragionare in una logica più manageriale che di conservazione di potere».


Ma torniamo a Montezemolo, per te emblema della decadenza italiana. Non si può negare che con il grande Gianni Agnelli la Fiat ha via via perso competitività e quote di mercato, mentre la presidenza Lcdm –sia pure non strettamente operativa-ha coinciso con un quasi miracoloso rilancio del Lingotto.

«Il suo ruolo è stato in realtà solo quello del comunicatore. Che è nelle sue corde».


Sarà pure un comunicatore. Però dopo i suoi successi giovanili con la Ferrari di Lauda, nonostante una stampa nel complesso indulgente, che ha chiuso un occhio sui suoi non rari incidenti professionali, la sua immagine non era certo quella di un manager di grande spessore. Più che altro, complice anche il suo lungo legame con la regina dell'erotismo all'italiana, Edwige Fenech, Lcdm era diventato un personaggio "leggero", tanto da meritarsi il nomignolo di "Libera e bella", per il suo vezzo di sistemarsi i capelli. Con la presidenza della Ferrari supervincente via via l'immagine di Lcdm s'è rafforzata. E la sua presidenza di Confindustria è criticabile, ma appare forte.

«Di fonte a compiti complicati Montezemolo è obiettivamente un disastro. Oggi gestisce la Confindustria male. Ha però il supporto di personaggi solidi quali Innocenzo Cipolletta, Mieli, Abete e Della Valle. Di cui ho però un giudizio pessimo per le linee che hanno contribuito a far assumere a Confindustria ».


Almeno non negherai che è stato capace di crearsi una bella squadra?

«E' più corretto dire che è lui l'espressione di una bella squadra».


Ma perchè gli Agnelli lo hanno sempre protetto e appoggiato, trattandolo da enfant gate cui si perdona tutto?

«Diciamo che l'Avvocato indulgeva a un certo istinto feudale».


Nessun commento: